Di quando in quando nel mondo industriale si affaccia un nuovo concetto, una nuova idea che se opportunamente sostenuta si fa tendenza fino a diventare una sorta di cometa da seguire, pena l’insuccesso. È il caso della responsabilità sociale dell’impresa o Csr (Corporate social responsibility), termine coniato più di 20 anni fa ma che solo negli ultimi ha acquisito una certa rilevanza e il fascino tipico dei concetti di ‘tendenza’. La Csr si traduce nell’inserimento di valori di carattere etico nella cosiddetta ‘catena del valore’: cioè significa per una azienda elaborare le proprie strategie tenendo conto dell’impatto sociale delle stesse. Facciamo nostra la definizione di Gordon Brown, il quale ha recentemente sostenuto che la Csr va ben al di là delle vecchie e conosciute iniziative filantropiche che, pur apprezzabili, si traducevano nella donazione di parte degli utili di una azienda ad enti benefici. La Csr si declina in un comportamento quotidiano socialmente virtuoso che tiene conto dell’ambiente in cui una realtà industriale (ma non solo) opera e delle condizioni di lavoro che offre. Tutto ciò poiché il valore di un’impresa non dipende solo dal proprio brand, ma anche dall’interazione con la comunità locale e globale in cui essa opera. Per misurare l’importanza che ha assunto questo concetto basta fare riferimento ad alcuni indicatori particolarmente significativi che supportano tale tesi.
Nel 1995, per iniziativa dell’allora presidente della Commissione Europea Jacques Delors, nasce la Csr Europe, network che ad oggi conta più di 60 multinazionali (tra cui Abb, Coca- Cola, Ibm, Microsoft, Nestlé, Novartis, Unilever, tanto per citarne alcune) e 23 nazioni europee tra cui la Svizzera. Questa organizzazione no-profit, emanazione della Commissione Europea, si occupa di promuovere il concetto a livello continentale. Di particolare rilievo lo studio condotto da questa associazione di concerto con l’Orse (Observatoire sur la responsabilité sociétale des entreprises) sullo stato della materia in Cina. Negli Usa, nel 1999, è nato il Dow Jones sustainability Index, il primo indice borsistico mondiale di valutazione della responsabilità sociale dell’impresa. Ad oggi ha assegnato 60 licenze ad istituzioni finanziarie, tra cui spiccano anche alcuni prestigiosi operatori di casa nostra, e vanta un asset complessivo di oltre 5 miliardi di dollari. Come inevitabilmente accade in questi casi sono poi nate certificazioni ad hoc che le imprese possono conseguire, completando un percorso burocratico che consenta loro di attestarsi come operatori socialmente responsabili, ecco sorgere quindi la Sa 8000, la Aa1000 e la Iso 26000, che vedrà la luce nel corso del 2008.
Le homepage dei siti internet delle più importanti multinazionali riservano oggi uno spazio alla Csr e danno risalto alle iniziative promosse in tale ambito. Uno degli esempi più eclatanti è Nike che, dopo aver subìto uno shock mediatico a seguito della notizia di sfruttamento di lavoro minorile nei Paesi in via di sviluppo, ha iniziato un percorso virtuoso di redenzione intraprendendo iniziative in varie direzioni per ricostruirsi una reputazione in parte compromessa. Oggi Nike stanzia una cifra vicino ai 150 milioni di dollari all’anno per iniziative in ambito di Csr. Così Hannah Jones, Vp di Nike per la Csr, ha definito questa come un primario obiettivo di business per Nike.
Questi ultimi aspetti introducono però un ulteriore fronte di discussione: le iniziative socialmente responsabili, sia detto senza malizia alcuna, presentano anche una valenza come efficace strumento di marketing quando si tenga conto della reputazione che l’impresa può guadagnare, o perdere, verso i consumatori. Questo aspetto presta inevitabilmente il fianco alle critiche dei detrattori della Csr: citiamo a questo riguardo un recente sondaggio, condotto in Inghilterra, che rivela che il 44% dei cittadini e il 66% degli uomini politici ritiene che la Csr riguardi più l’immagine delle società, che non i benefici sociali. Ma c’è anche chi si spinge oltre: è il caso di Robert Reich, già docente di Economia politica ad Harvard e ministro del lavoro Usa sotto l’amministrazione Clinton, che argomenta contro la Csr definendola una inutile distrazione che le società si concedono su una materia che deve, secondo l’autore, restare di pertinenza dei governi dei Paesi. Penso si possa affermare che le imprese operano in un contesto sociale di comunità da cui non possono prescindere e devono, nei limiti del possibile, inseguire, o almeno non ostacolare, quello che oggi si definisce uno sviluppo sostenibile per la collettività. Se le iniziative in questa direzione, ricevendo opportuna esposizione mediatica, producono poi benefici anche per le aziende stesse, ci sembra che nessuno debba dolersene, se social-